Scarlett, statte zitta n’attimo.

Ho visto Her.

E i Blur che cantavano “Love in the 90’s is paranoid”. Chissà Damon Albarn se ha visto questo film, chissà cosa ha pensato.

Ancora dovremo firmare fogli di carta per divorziare? Con le penne dico.

Se il futuro sarà colorato col filtro Walden di Instagram a me sta bene.

Alzi la mano chi non ha avuto una relazione virtuale negli ultimi 10 anni, vi vedo.

A me basta che mi date qualche canzonetta indie e sarò vostra. Sì, Karen O degli Yeah Yeah Yeahs, dico a te. Sì, Arcade Fire, dico anche a voi.

Un mio amico è stato ossessionato davanti a un computer esattamente così, e pure io. E pure voi. E pure gli intellettuali che guardano solo i film iraniani in iraniano. Guardiamoci in faccia.

Oh, finalmente un giorno quelli che parlano da soli come me (sì, finisco le discussioni che non ho avuto l’esprit de l’escalier di controbattere) saranno considerati normali, che sollievo.

Un’assistente che ti cancella lo spam è un sogno ad occhi aperti per quelli che come me passano la maggior parte del tempo della loro vita su gmail.

Quella canzoncina lì. Quella che cantano insieme con l’ukulele. Qualcuno deve fermare gli uomini che cantano con l’ukulele. Eddie Vedder, mi leggi?

Il sollievo della sua amica Amy Adams che lo capisce. Tutti dovremmo avere un’amica Amy Adams che ci capisce.

La scusa con cui lo lascia non differisce essenzialmente da quelle che uso io: “Sto andando da un’altra parte”. Ma do’ vai?

Ad un certo punto sembrano due lesbiche, l’OS e l’hipster coi baffi. Una mia amica dice che il bla bla bla delle lesbiche è una “fertilizzazione senza seme”. Lo penso anch’io.

Sì, è vero, all’inizio di ogni rapporto sentimentale non facciamo altro che parlare, parlare, parlare e scopare tutto il tempo. E le ore al telefono. Cosa cazzo dobbiamo dirci? Ogni cosa è nuova, sì. Ogni cosa bisogna dirsela. Che palle.

Scarlett, statte zitta n’attimo.

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Sofia Coppola è una miliardaria sgangherata

Sofia è una miliardaria sgangherata indie abbastanza risolta. È una che chiama molti taxi, insomma (una mia amica miliardaria di Brera risolve metà dei problemi della sua vita così, secondo me anche Sofia).
Sofia non è figa, ma si veste a righine e si può permettere skinny jeans e ballerine, che è quanto di più vicino alla felicità si possa immaginare.
Le eroine dei film di Sofia sono esse stesse miliardarie sgangherate. Miliardarie e depresse. Si sa, quando non c’è immaginazione c’è noiosissima autobiografia.
Che la depressione sia sexy noi un po’ già lo sapevamo, ma Sofia vestendola Mark Jacobs ci ha straconvinto. Una depressione post universitaria come quella di Scarlett Johansson in Lost in Traslation era quanto di più auspicabile potessimo immaginare per noi stesse, per esempio. Per non parlare del culo. Quella depressione qualcuna di noi se l’è fatta, quel culo ancora no.
Mi interesso di miliardarie sghangherate e di depressione da diversi anni, quindi sono andata a vedere Bling Ring con le migliori intenzioni. Sono andata anche col ricordo vago e confuso dell’ultimo film di Sofia che ho visto: Somewhere. Una cosa ignobile (Leone d’Oro? WTF?). Avevo scritto una recensione per Setteperuno che si è perduta nel tempo come lacrime nella pioggia ma che è rimasta nel mio hard-disk. Rileggendola ritrovo le stesse sensazioni che ho provato per Bling Ring.
Somewhere sembrava (ed era proprio) uno di quei film inutili fatti giusto perché: i soldi c’erano, lei si chiama Sofia Coppola e come ben sapete è la fija de Francis Ford, quindi tutto ciò che porta il suo nome (e quello di daddy as producer nei titoli di testa) è foriero di beltà e credibilità (una specie di Mortadella Rigà). Di Bling Ring si può dire lo stesso. E l’unica cosa davvero notevole del film è lo spietato brand placement (il brand Paris Hilton, stucchevole).
In Somewhere non sussisteva alcuna storia. In Bling Ring speravamo di sì, è tratto da un articolo di Vanity, come campeggia all’inizio del film. Ma Sofia l’ha messo in esergo per dirci cosa? “marò, quanto sò pop“? “rendetevi conto con che mezzi abbiamo a che fare oggi“? Per dirci forse qualcosa del superamento di Joseph Conrad nelle sceneggiature di noi, registi di oggi noi? No. Niente di tutto questo, la cosa riesce solo a sottolineare che scrivere si capisce che per Sofia debba essere davvero faticoso.
In Somewhere c’era Stephen Dorff, star hollywoodiana e papà di una bambina profondissima che aveva capito già tutto dell’essenza della vita (oh, io il primo che mi mette in un film un bambino stupido che dice solo cazzate me lo vado a limonare). Qui ci hanno venduto la canissima Emma Watson (che abbisogna evidentemente di acting coach anche per accendere una sigaretta e farla sembrare cosa verosimile) come superstar per mesi interi, quando questa era solo un contorno poiché i protagonisti veri sono Rebecca, stronza micidiale che veste Donna Karan a diciassette anni, drogata di dive di Hollywood che decide di entrarci in casa e svaligiarle quando non ci sono e di Marc, il suo amichetto del liceo appena arrivato in città (forse gay, ma non indaghiamo, non vorrei trovare affrontate delle tematiche proprio in un film) che la aiuta. E se la storia fosse stata davvero una storia e avesse preso la piega ed i riferimenti giusti (o se Sofia fosse amica ammè) quel ragazzetto poteva diventare Brandon Walsh da Minneapolis, Minnesota, e invece.

RIFLESSIONI
Se vi piace Sofia Coppola e volete conservarne un bel ricordo non vedete questo film. Ormai i ricordi belli sono davvero lontani e rarefatti, come nelle storie d’amore, quando resta solo il rancore e tutta quella felicità di quando eri innamorata non sai più cos’è. Io quasi non me lo ricordo nemmeno più Bill Murray che canta More than this dei Roxy Music al karaoke. Devo andare su youtube e ripiangerci su.
Io penso che Sofia Coppola faccia film come si innamora, perché non ha niente da fare (e perchè le piace tanto andare a Venezia a rilasciare interviste sui vaporetti). Io non le voglio male, a meno che non sia vero che Lost in traslation glie l’abbia fatto il compagno dell’epoca, in quel caso le voglio malissimo.
Io so che essere regista è una cosa faticosa. È troppo difficile farsi autore quando le immagini accoppiate a canzonette indie bastano da sole a fare un film, ma stavolta non è riuscita manco a fare quello. Pure la colonna sonora è atroce.

COSA TI PORTI A CASA?
Visto che tutto si tiene e che di ogni esperienza bisogna saper prendere qualcosa di buono, nonostante lo scempio rimarranno tre cose: Emma Watson che chiede alle amiche «che cos’è l’Alprazolam?» mentre fruga in casa di Megan Fox, lo restarci malissimo dell’amichetto Marc di fronte allo schermo per esser stato unfriendato (“Rebecca only shares some profile information with friends“, che disumanità) e le diciassettenni wannabe miliardarie sgangherate che sono andate a vederlo vestite H&M.

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Sorrentino come Spinaceto pensavo peggio*

Alcune considerazioni sparse su La Grande Bellezza, nuovo film di Paolo Sorrentino:

La Grande Bellezza è un film su Roma e su quelli che c’hanno la casa piena di Super ET Einaudi.

A Sorrentì je piace esagerà. Non è la prima volta. Mò pare che non lo sapevate.

A Romanord il film è uscito prima.

Come si accende e si ciuccia una sigaretta Toni Servillo non l’ha fatto nessuno mai. Provateci. Proprio così non ci si riesce. Un po’ Don Draper forse, ma nemmeno.

Cosa è successo da piccolo a Sorrentì con le suore?

Il coro di hostess al Fontanone che palle.

Io sono una fan di Sorrentì. No matter what. No matter how many fenicotteri e suore ci stanno. Il mio fan club si chiama “I love Sorrentì for Titta Di Girolamo reasons”.

Gli altri registi che parlano male del film è l’invidia perché nei loro non ci sarà mai Serena Grandi a pippare.

Io a certe serate zoccole dell’Alpheus ho visto anche di peggio.

Provateci voi a tirare fuori un nome figo come Jep Gambardella.

I coinquilini limonatori: <3.

Come sono guardati i coinquilini limonatori da Servillo e Verdone. Guardiamo i film di Sorrentino per questo.

Quella “madre e donna” è la Mazzantini, vè?

Nella mia sala grande disappunto, stupore, sconcerto, grida e schiamazzi alla vista della pancera di Servillo. Anche nella vostra?

Nella mia sala Fanny Ardant è stata scambiata per Ivana Trump. Da me.

Io me lo immagino com’è andata quando Sorrentì ha chiesto a Fanny Ardant di partecipare. «Fannì, c’hai voglia di vestirti da miliardaria e farti incontrare n’attimo e morire dietro da Toni?» «Bien sûr Paolò, pare che non posso fare altro io nei film tuoi».

Ma quei due che sapevano fare bene una cosa, cos’è che sapevano fare bene?

Aò, Sorrentì e Servillo se so’ proprio trovati.

Sabrina Ferilli ha le smagliature sulle zizze. Allora non solo io.

Sabrina Ferilli a fa la grezza è proprio brava, nun je se po’ di gnente.

Oh, sulla selezione musicale Sorrentì è sempre una certezza.

Già dal trailer/spot per l’Unesco sul centro storico di Roma passeggiato da Servillo si potevano capire tante cose.

La redattrice nana è un tajo.

Neanche un lucchetto?

Iaia Forte è una figa. Non andrò mai più a vedere uno spettacolo di tre ore di Ronconi soltanto perché c’è lei ma è una figa.

Francamente i bambini che corrono felici nei cortili dei film mi hanno rotto il cazzo.

Ma Pasotti chi era quello con tutte le chiavi?

Inserire la parola “Facebook” in un’opera artistica della modernità non è una necessità imprescindibile.

Isabella Ferrari ammazza se s’è invecchiata.

Nei titoli di coda pensavo si arrivasse fino a Ponte Milvio. Invece poi no.

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*Status de n’amico mio