Di cosa parliamo quando parliamo di rape culture

Questo è un mio articolo uscito oggi su Wired dove parlo di rape culture e del fatto che, purtroppo, ancora per un po’, ci toccherà essere femministe.

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Secondo il sito web del Centro Donne dell’Università di Marshall “La cultura dello stupro è un ambiente dove lo stupro è prevalente e dove la violenza contro le donne è normalizzata e giustificata dai media e dalla cultura popolare. La cultura dello stupro viene perpetuata attraverso l’uso di un linguaggio misogino, l’oggettivazione del corpo delle donne e la spettacolarizzazione della violenza sessuale, creando con ciò una società che ignora i diritti e la sicurezza delle donne.”

Viviamo in un tipo di società che accetta e giustifica la violenza sulle donne, insomma. Ce ne rendiamo conto in qualsiasi momento, anche quando c’è bisogno di scomodare una cantante come Giorgia e farla denudare sotto i riflettori contro il femminicidio. Femminicidio, una parola orribile che ancora non trova la tomba del disuso. Non si capisce come sia possibile lottare contro la violenza sulle donne attraverso la nudità, per me è come cercare di combattere la cellulite con la foto di una bella carbonara. Ma la nudità serve, produce like, produce la condivisione degli intenti, e veicola anche idee politiche, come ha confermato Paola Bacchiddu sotto elezioni. Non voglio passare per bacchettona e moralista, la cosa importante qui non è cosa fare con il corpo delle donne, ma è alimentare una cultura che decida che cosa sia sbagliato ed inaccettabile. E un corpo nudo o seminudo può fare la differenza.

La rape culture esiste proprio perché non crediamo che in realtà esista. Questo è un tacito accordo legato a doppia mandata con l’immagine della donna, accettiamo la sua degradazione a oggetto e la sua ipersessualizzazione come norma. Spesso è la donna a ipersessualizzarsi per sua scelta, penso alle continue provocazioni di Valentina Nappi su Facebook. Ma Valentina Nappi ha fatto delle scelte precise sul suo corpo, e le sue provocazioni hanno anche a che fare con il suo lavoro, è un tipo di pubblicità molto economica. Pochissimo sforzo per un grande risultato.

Se parliamo di rape culture dobbiamo pensare che sia qualcosa di endemico nella nostra società, proprio perché non esiste un’ampia definizione di cosa realmente sia a livello culturale. Il ruolo che abbiamo nel propagandare una cultura che non solo permette ma giustifica la violenza sulle donne è importantissimo. “Noi possiamo fermare questa propaganda. Tutti noi giochiamo un ruolo importante nel permettere che la cultura dello stupro trovi terreno fertile ed esista” dicono le attiviste Eesha PanditJaclyn Friedman, e la regista Nuala Cabral, le quali credono che si possa porre fine alla rape culture seguendo una semplice to-do list:

– Dare un nome ai problemi. Chiamare le cose coi loro nomi, ovvero “mascolinità violenta” e “victim-blaming”.
– Riesaminare e reinventare la mascolinità.
– Istruire i media.
– Trovare strategie globali per diffondere la conoscenza della rape culture.
– Non ridere di fronte ad uno stupro.

Certo, sembra un po’ troppo semplice risolvere il problema della rape culture con una ricetta scritta per punti chiave. Una lista che deve certo aver fatto sorridere la sociologa Camille Paglia, che si fa tutt’altro genere di domande: “Puoi tentare di insegnare alla gente a formulare dei giudizi etici. Ma puoi dire ad uno stupratore di non stuprare? C’è un’ideologia liberale là fuori, che le persone siano buone, di base. E’ una versione borghese della realtà – è l’ idea che il mondo intero sia come un salotto borghese e che chiunque non appartenga a questa realtà possa venire riqualificato. No, non si può! Il mondo è un posto pericoloso. E sta a te proteggerti, non soltanto dallo stupro, ma da qualsiasi cosa. La scarsa immaginazione per la criminalità mi sorprende. Il problema è l’incapacità delle donne di proiettarsi dentro la mente degli uomini. Le femministe dicono che le donne hanno il diritto di fare quello che vogliono – di fare jogging con gli auricolari e le tette ballonzolanti. Certo che ne hanno il diritto, ma è anche stupido! Io cerco di vedere con gli occhi di un criminale. Devo avere una mente criminale.” Io sarei quasi d’accordo con questa visione estremista, e sarei anche pronta a seguire un corso sulle menti criminali, ma il fatto è che ogni donna ha davvero tutto il diritto di camminare per strada con il seno in bella mostra. E soprattutto è dovere di chi le viene incontro non fare commenti e non pensare che il suo abbigliamento sia un invito allo stupro.

Quando vengono lette le istanze sulle aggressioni sessuali, le prime reazioni dei media si riferiscono spesso alla provenienza di “buona famiglia” degli stupratori. Questo quando non si tratta di un aggressore straniero. In quel caso la vittima è una vittima a tutti gli effetti e lui verrà descritto semplicemente come “il rumeno” (o qualsiasi altra sia la sua nazionalità). Quando invece facciamo riferimento ad un’altra casta di stupratori, che potremo definire “stupratori borghesi”, come i giovani che lo scorso ottobre hanno organizzato uno stupro di gruppo a Modena, le cose assumono connotati diversi. Secondo le femministe italiane da salotto la sedicenne stuprata a Modena ci ha svelato “l’abisso in cui siamo precipitati”.  In realtà quello che l’intera faccenda ha svelato è il loro  di abisso, o al massimo quello degli stupratori. Finché ci si chiederà quanto corta fosse la gonnella della ragazza, quanti drink abbia bevuto alla festa e che tipo di atteggiamento abbia tenuto, non potremo mai arrivare da nessuna parte. Se il peso che ha una donna nello stupro è qualcosa di quantificabile e di cui si sente il bisogno di parlare, allora stiamo sbagliando ancora.

(continua a leggere sul sito di Wired)

Una mia storia e una mia teoria sulle storie

Oggi è uscita una mia storia su Abbiamo le prove, è una cosa di molti anni fa che non raccontavo da un bel po’. Certe storie ce le teniamo dentro, le raccontiamo a pochi. Alcune nemmeno a quelli. Le teniamo per noi. Invece bisogna raccontarsi, bisogna esporsi un po’, mettere fuori della pelle. Questo se si scrivono storie e non contenuti per un foodblog (senza nulla togliere ai foodblog).

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Ciao, Bella

 

Una decina d’anni fa avevo 22 anni, mi ero trasferita a Roma da poco e vivevo in Corso Regina Margherita. Frequentavo una scuola di teatro, qualche volta andavo all’università.

Ogni giorno, rientrando o uscendo da casa, passavo davanti ad un piccolo chiosco di fiori aperto giorno e notte che incrociava la Nomentana, proprio all’angolo di casa mia.

Ogni giorno, rientrando o uscendo da casa, l’uomo del chiosco dei fiori (erano due uomini, molto simili, ma avevo imparato subito a riconoscerli) mi guardava e faceva qualche commento nella mia direzione. I commenti in realtà erano spesso solo due parole: “ciao, bella”.

L’uomo dei fiori mi guardava dalla testa ai piedi. Quando mi vedeva arrivare da lontano usciva dal chiosco, e si metteva sulla mia traiettoria, fissava il mio corpo, allargava le braccia, e un enorme sorrisone ebete si disegnava sul suo volto mentre mi diceva: – ciao, bella.

Sono una donna. Ho più di trent’anni. Ne ho ricevuti tanti di “ciao bella” nella mia vita. E non perché io sia particolarmente bella: perché sono una donna. Io lo detesto. Divento nervosa e mi si irrigidisce il collo. Percepisco tutto questo come una violenza. Sento che il mio corpo è intralciato. Bloccato. Indifeso. Fermo. La cosa peggiore è che devo accettarlo. Non posso fare niente. Quando uno ti dice – ciao, bella – non ti sta offendendo, non ti sta aggredendo, quindi tu non puoi mandarlo a quel paese o chiamare i carabinieri, perché, in fin dei conti ti sta SOLO facendo un complimento. La cosa in sé, raccontata con freddezza ad una forza qualsiasi dell’ordine, in un verbale uscirebbe così: “mentre la signorina camminava in Viale Regina Margherita, un uomo di circa trent’anni la guardava e le diceva queste parole: ciao bella“. Punto. Firmi qui. Ma no. Non firmo niente. Non è così. Non è solo questo. C’è lo sguardo da maniaco (quando c’è, e spesso c’è), c’è la voce melmosa, suadente, lasciva, c’è la mia vita bloccata per alcuni istanti lunghissimi, in un momento in cui non l’avevo deciso io, c’è il suo respiro addosso, il suo odore, ci sono le sue mani. C’è il suo corpo che ti chiede, che si posiziona di fronte a te, verso di te, contro di te, in un momento e in un modo che tu non avevi deciso. E se ti metti a rispondergli, a rispondergli “male”, a urlare, ecco, sei una povera pazza, esageri, datti una calmata. Se vuoi prenderlo a schiaffi, sei una psicopatica, e hai problemi serissimi e non risolti con l’aggressività. Così facendo “TE LA SEI PROPRIO ANDATA A CERCARE EH”. In quei momenti sei tu che “peggiori la situazione”, situazione che non hai creato e deciso, ma che ti si è presentata su un marciapiede, all’ingresso di una discoteca, in un bar, su un tram, mentre camminavi per i fatti tuoi su una strada, su una piazza, o mentre stavi seduta tranquillamente da qualche parte nella tua vita.

Quando mi vedeva passare l’uomo dei fiori faceva anche dei rumori, rumori che cambiavano a seconda delle stagioni o degli eventi. Quando avevo una gonna, per esempio, l’enorme sorrisone ebete si disegnava più in fretta sul suo volto rispetto a quando tornavo dal mercato vestita solo con una tuta. I rumori diventavano grugniti, gemiti, quando ero un po’ scollata, o quando avevo i tacchi.

Le prime volte che succedeva facevo un piccolo sorriso, dicevo a bassa voce – sì, sì, ciao – , non ricambiavo mai il suo sguardo e tiravo dritto per la mia strada.

Qualche volta non lo vedevo, perché avevo parcheggiato il motorino proprio in cortile e quindi non passavo davanti al suo chiosco.

Qualche volta uscivo di casa e giravo nella direzione opposta per non incrociare il suo enorme sorrisone ebete e non incorrere nel suo “ciao, bella”, o nei suoi grugniti.

Qualche volta attraversavo Viale Regina Margherita, rischiando la morte, pur di non attraversare sulle strisce, che stavano proprio davanti all’uomo dei fiori.

Spesso ero in compagnia di amici, e quando tornavo a casa con loro lui si faceva i fatti suoi. Quando invece tornavo con qualche amica i sorrisoni erano per tutte e due. Non avevo neanche l’esclusiva. (continua qui)

Mi hanno chiesto se voglio congelare i miei ovuli e l’ho raccontato su Abbiamo le prove

C’è una nuova rivista nata da poco, l’ha creata una donna per farci scrivere altre donne: si chiama Abbiamo le prove ed esiste grazie a Violetta Bellocchio. Io l’ho conosciuta questa qui, le piacciono le gif di Tumblr e le storie vere, così ci siamo bevute un vero cappuccino e abbiamo parlato per due ore di cose vere. Mi è piaciuta subito. Un po’ perché non ha usato lo zucchero e un po’ perché è una che dopo dieci minuti che la guardi negli occhi ti sembra già una cara amica a cui puoi sbobinare intere inconfessabili verità della tua vita. Una di cui ti puoi fidare. Ho conosciuto Violetta grazie ad un’altra donna di cui ti puoi fidare, Nadia Terranova. Non si sa perché ma quest’altra ci trova qualcosa in me e fa il mio nome alla gente, spostando ogni volta la mia autostima vertiginosamente di una tacca sopra quella di Kafka, ed io a parte ringraziarla, arrossire e baciare le mani non so che fare.

E insomma per tornare alla cosa più importante che è la rivista, Abbiamo le prove dice di sé “solo storie vere, una storia alla volta” e oggi c’è una storia divertente di quando mi hanno chiesto se volevo congelare gli ovuli, questa.

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