La lettera di Natale

Oggi sono ospite su Vicolo Cannery con un racconto, questo.

La lettera di Natale

Sua madre le aveva fatto scrivere una lettera di Natale fasulla ai loro zii in America. Erano emigrati da sessant’anni e ormai avevano assimilato completamente le abitudini anche sciocche di quel paese. Così ogni anno verso i primi di dicembre arrivavano queste cartoline complete di fotografie di famiglia, di famiglie, ogni volta che da una famiglia se ne formava una nuova. Erano sempre tutti vestiti bene e sorridenti e con dei piccoli bambini in braccio dietro un abete decorato e sfavillante.

Stiamo tutti bene. Il lavoro procede a meraviglia per tutti. Michael si è appena laureato. Jennifer si è appena sposata. Mark ha appena avuto un figlio. Joe è appena diventato capo dell’azienda. I ragazzi si sono appena trasferiti in una casa più grande. Proprio quest’anno. Come ogni anno, tutto era diventato più. Ogni cosa era migliorata. Ed era successo da poco. Adesso, mentre vi scriviamo. Tutta la famiglia navigava nel benessere, tutti si davano da fare, come piccole prodighe api operose, nessuno era depresso. A nessuno era venuto un crollo emotivo. Nessuno si era fatto male. Nessuno si era ucciso, nessuno era morto, e, se proprio era successo, era stato fantastico. E il funerale era stata una funzione commovente ma in fondo allegra, dove i bambini si erano alzati e avevano letto delle poesie, e sulla tavola c’erano state cose buonissime da mangiare che avevano portato i vicini, premurosissimi.

Così aveva scritto quella lettera di Natale. Quell’anno gli affari per la sua famiglia erano crollati, di lì a breve avrebbero dovuto vendere la casa che amavano, dove lei e suo fratello erano cresciuti, e trasferirsi in un appartamento più piccolo. Lei aveva cercato di uccidersi, e questo aveva buttato giù tutti. I nonni stavano male, la nonna non riconosceva più le persone e ogni volta che la vedevano aveva perso l’uso di qualche punto del corpo. Era tutto in rovina, in caduta libera. Così scrisse quella lettera assurda. Si sforzò di trovare una cosa buona, una soltanto, ma non era successo niente del genere. Così inventò un anno di felicità. Un lavoro nuovo per lei. Un matrimonio imminente. La ricerca di una nuova casa, più grande. Sottolineò quanto gli affari andassero a meraviglia. Quanto i nonni stessero bene. Quanto fossero felici. Tutti. Quanto le cose fossero cambiate in meglio.

Lesse e rilesse quella lettera come se fosse vera. Ci pianse sopra. Voleva che fosse vera. La riscrisse una decina di volte, migliorandone l’inglese, cercando frasi che potevano fare al caso suo, ficcandoci espressioni di un certo livello per impreziosire tutto. Poi, arrivata alla fine di quel lento lavoro di rifinitura e artificio, stremata, si accorse che non aveva una fotografia abbastanza recente di tutti loro insieme, felici. Erano tutte vecchie di almeno sei anni. Erano almeno sei anni che non erano felici. Non si diede per vinta, nella lettera spiegò che c’era stato un contrattempo con il fotografo e che appena si sarebbe risolto gliel’avrebbe mandata.

Si alzò dalla tavola, si era messa in cucina a scrivere. Uscì in balcone per fumare una sigaretta. L’aria gelida le anestetizzava la gola.

Tornò dentro. Sul tavolo aveva sparso altri vecchi biglietti di auguri. Ritagliò un’immagine che potesse andare bene come cartolina natalizia da mettere insieme alla lettera. Così tutto sarebbe stato completamente fasullo. Una storia inventata e una cartolina riciclata. Era una natività piuttosto brutta. Come la sua famiglia. C’erano Maria e Giuseppe disegnati molto male con il bue e l’asinello dietro che sembravano due mucche identiche, e un bambino in mezzo, dentro quella che doveva essere una cesta, ma che in realtà poteva sembrare un water di legno. Nessuno della sua famiglia credeva in Dio. Rilesse la lettera.

We wish each and everyone one a very joyous Christmas season. May the new year find you healthy and allow it to continue throughout the year.

La chiuse in una busta. Poi corse in bagno a vomitare.

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La bambina dagli occhi storti e dalle parole strane

Oggi sono ospite di Poetarum Silva (blog con contenuti letterari che dovete assolutamente seguire) con un racconto sulla mia infanzia. Era da un po’ che volevo parlare dei miei occhi storti e delle parole strane con cui sono cresciuta. Ringrazio il carissimo Gianni Montieri per avermi aspettato.

sampa 2013 - foto gianni montieri

La bambina dagli occhi storti e dalle parole strane

Per via di un parto difficile e di una manovra fatta con uno strumento dal nome sinistro che mi avrebbe perseguitata per tutta la vita, il “forcipe”, sono nata con un problema di strabismo agli occhi. Questo non fu chiaro fin quando non ebbi compiuto due anni. Uno dei miei primi ricordi risale ad allora. Sono in spiaggia con i miei genitori e sto giocando con la sabbia, quando uno ad uno vengono a radunarsi lentamente intorno a me dei bambini che si mettono in cerchio, se ne stanno lì e mi fissano, tra l’incredulo e il divertito, e mentre passano altri bambini li chiamano con un gesto puntando il dito verso di me. Mia madre scoppia in lacrime, corre a prendermi per mano e mi porta via urlando tra i singhiozzi ai bambini: “lasciatela in pace, è solo strabica”. Il fatto è che dovevo essere davvero buffa da guardare, i miei occhietti erano proprio storti, si giravano completamente in dentro, verso il naso, senza che io potessi farci niente.

Da quel giorno “strabica” divenne una delle mie parole strane. Sono strabica. Lo dicevo a tutti, quasi come fosse un vanto. E anche per farmi dare un po’ di tregua, insomma, lasciatemi in pace, non lo vedete che sono strabica.  Io a quel tempo non sapevo assolutamente che diavolo volesse dire. Sapevo che ero strabica. Che era una cosa mia, che mi apparteneva. Come Silvia, era come un mio altro nome.

Più tardi iniziai ad accompagnare la parola “strabica” con quell’altra parola strana, “forcipe”. Ascoltavo spesso mia madre raccontare questa storia del mio parto difficile ad altre persone. Lei diceva che mi avevano tirato fuori con il forcipe, per quello ero strabica. Ma da dove mi avevano tirato fuori? E che collegamento poteva esserci con i miei poveri occhi girati? Non lo sapevo. Non l’avrei saputo per un sacco di tempo. Il primo forcipe lo vidi solo moltissimi anni dopo, nello studio di una ginecologa. Era in una vetrinetta insieme ad altri oggetti che sembravano strumenti di tortura medievale. Solo quel giorno riuscii finalmente a comprendere il significato di quella  parola strana che avevo ripetuto per anni.

Mi piacevano davvero un sacco quelle parole strane degli adulti che non capivo, me le facevo ripetere, le masticavo nella mente e gli davo un significato tutto mio.

Mio padre tutte le sere prima di andare a letto mi leggeva la mia fiaba preferita: Cappuccetto Rosso, ero talmente invasata che la ricordavo a memoria, perfino il momento in cui doveva girare pagina, e glielo dicevo. C’era una frase del lupo vestito da nonnina che mi faceva restare di sasso: Tira il paletto ed entra, disse il lupo guardandola con cupidigia. La “cupidigia”, chissà cos’era. Non me lo feci mai spiegare. Non ero molto interessata alle spiegazioni delle parole. Non mi interessava sapere cosa volessero dire. Preferivo usarle quando mi andava. Così per me guardare con cupidigia era diventato “guardare con un’amica strana”. La cupidigia doveva essere nascosta nel letto con il lupo travestito da nonnina. Forse la cupidigia era nascosta anche nel mio letto mentre mio padre mi leggeva Cappuccetto Rosso. Chissà perché la cosa non mi faceva paura.

Non tutte le parole strane erano innocue, però. Certe erano spaventose. Mia madre che mi sgridava e mi diceva che avevo “torto marcio” mi faceva venire i brividi, per esempio. Per me il tortomarcio era una parola unica, era un mostro a cinque teste, nero e cattivo. E io ce l’avevo dentro quando facevo la birichina. Non so spiegare come ma poi il mostro se ne andava. Non potevo avercelo dentro tutto il tempo. Diciamo che dopo un po’ si stufava e mi lasciava in pace. A volte dopo quelle sgridate mi mettevo a piangere da sola nel mio letto. E piangevo finché non diventava buio. E quando diventava buio arrivava mio padre dal lavoro ed entrava in camera mia, e io ero esausta ma dovevo raccontargli quello che avevo combinato perché mia madre voleva così. E lui mi dava un bacio lo stesso, anche se ero stata molto cattiva, e accendeva l’abat-jour. Ecco, diciamo che ero sicura che il tortomarcio se n’era definitivamente andato quando mio padre faceva click.

Altre volte, alla fine di una discussione estenuante, dopo aver tirato fuori questo tortomarcio, mia madre mi suggeriva anche di farmi un “esame di coscienza”. Per me l’esame di coscienza era il peggiore dei compiti in classe, avevo solo mezz’ora di tempo per farlo, e c’erano delle domande veramente difficili a cui non sapevo rispondere ma dovevo consegnarlo in tempo altrimenti avrei avuto una brutta punizione.

Quando ripenso a queste parole strane mi viene molta nostalgia. Non sono più parole solo mie. E non riesco più a giocarci come prima. Adesso non mi invento più un significato diverso per quelle che non conosco. Le vado a cercare. Ora non sono più strabica. Mi hanno operato agli occhi e mi è rimasto solo quello che il mio oculista descrive come uno strabismo di Venere che è molto attraente. Perché dice che è una leggera imperfezione dello sguardo che attira molto l’attenzione. Sì, lo so benissimo. Ho avuto per anni orde di bambini scemi che passavano il tempo a fissarmi. Adesso so benissimo cos’è lo strabismo, e ho anche visto un forcipe in carne e ossa. Adesso mi faccio da sola degli esami di coscienza, devo dire che ci metto anche più di mezz’ora. Adesso sono io che dico agli altri quando hanno torto marcio, lo dico anche a mia madre con una certa rivincita, ma, ecco, non è più così divertente.